7d5eddd4-3b74-41fc-95ee-4fb27a652b2c
eedac397-fb3a-4ca1-9338-ef4a3650fac5
Social
Contattaci

facebook

info@imarinotidisicilia.eu

IMARINOTIDISICILIA©

I MARINOTI DI SICILIA

Recensioni "Il Gattopardo"

98c5528b-017a-4a5c-a799-772dcec72e28
a4df0074-bf6a-42eb-a165-91a5bb94cb8d

"Noi siamo stati i Gattopardi…"

DI FARITA 64

 

La vicenda narrata nel libro "Il Gattopardo", scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel 1956, si svolge nella seconda metà dell'Ottocento e più precisamente dal maggio 1860 al maggio 1910 e narra la vicenda di una famiglia aristocratica siciliana in decadenza all'avvento di Garibaldi e dell'unione dell'Italia.

 

Il titolo del romanzo prende origine dallo stemma di famiglia dei principi di Lampedusa e rappresenta una belva felina. Il romanzo ruota attorno alla figura di don Fabrizio, bisnonno dell’autore del romanzo, Giulio Fabrizio Tommasi di lui si sa poco tranne quanto riferito dallo scrittore e di quanto rimane della sua biblioteca, conservata in parte a Palermo, presso l’archivio privato della famiglia Lanza Tommasi. Nacque a Palermo il 12 aprile 1813 ereditò nel 1831 il titolo di Principe di Lampedusa e Duca di Palma. Fu anche Grande di Spagna e faceva parte dei Pari del Regno di Sicilia fino al 1848. Personaggio di grande cultura e curiosità intellettuale superiore alla media, infatti, creò un proprio Osservatorio astronomico in una sua villa a Palermo nella Piana dei Colli. Don Fabrizio nel romanzo rappresenta l’anima siciliana consapevole che sta vivendo in un periodo di transizione e che il suo mondo, quello dell’aristocrazia e dei cosiddetti “voli di rondine” a cui appartiene sta morendo, infatti malinconicamente afferma, “Noi fummo i Gattopardi quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalli e le iene”. Don Fabrizio non riesce a integrarsi nella società a lui contemporanea, che guarda con scetticismo. Il mondo sta cambiando e Don Calogero Sedara, sindaco di Donnafugata, è il simbolo del cambiamento dei tempi, rappresenta il mondo nuovo, il borghese che sorge dalla rovina della nobiltà feudale, il “parvenu” che si è elevato ad una condizione economica e sociale superiore rimanendo sempre, rozzo nelle maniere e nello stile dove un frac seppur di buona qualità ma dal taglio orrendo non basta a coprire la sua goffaggine. Don Fabrizio intuisce che i soldi di Don Calogero sono il passe-partout per la carriera di suo nipote il nobile Tancredi Falconieri, eroico ufficiale dell’esercito garibaldino ma squattrinato, così, mette da parte tutti i pregiudizi del suo ceto e incoraggia Tancredi a sposare la bella Angelica figlia di Don Calogero Sedara e nipote del soprannominato “Peppe mmerda” per quanto fosse sudicio, la quale anche se innamorata del bel Tancredi capisce che sposarlo è l’unico modo per riscattarsi ed emergere dalle sue umili origini. Tancredi è simbolo del senso della storia e dell'evoluzione dei costumi la sua celebre frase “Se vogliamo tutto resti uguale, bisogna che cambi tutto” costituisce il tema del romanzo, un immutabile eterno presente.

 

Una delle scene più belle e significative del romanzo è quella del dialogo tra Don Fabrizio e Chevalley, inviato dal governo Piemontese a Donnafugata per offrire la carica di Senatore al Principe che rifiuta perché non crede che la Sicilia possa trasformarsi e rinascere a nuova vita,” Caro Chevalley i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria”

 

 Atteggiamento passivo e sfiduciato del popolo siciliano, perché, sempre stato dominato da altri e i Piemontesi rappresentano l’ennesimo straniero conquistatore. Don Fabrizio intuisce che il suo mondo aristocratico e imbellettato e inaccessibile ai comuni mortali sta finendo, la sua epoca è ormai giunta al tramonto così come la sua vita. Avverte il momento della transizione con una struggente malinconia per i tempi dei “Gattopardi”, si sente ormai fuori posto e desidera la sua fine così come è stato per il suo mondo e rivolgendosi al cielo implora.”  O stella o fedele stella quando ti deciderai a darmi un appuntamento meno effimero lontano da tutto nella tua regione di perenne certezza!”. Nella scena finale del romanzo, Concetta, la figlia del Principe, mite, affabile, ubbidiente, rimasta signorina perché eternamente innamorata di Tancredi, capisce alla fine di essere innamorata solo di un’idea e nient’altro, di un uomo idolatrato che è esistito solo nella sua mente. Ormai svuotata non prova più nulla, anche la sua vita è al declino e vuole spazzare via tutti i ricordi di un passato che per tanto tempo l’hanno tenuta imprigionata e così elimina facendo volare dalla finestra il corpo ridotto a tappeto pieno di ragnatele del defunto cane Bendicò fedele a suo padre, il suo gesto simbolico significava la fine di una realtà sociale e di una vita ormai finita. Nel romanzo c’è un parallelismo tra l’autore Giuseppe Tomasi e il suo bisnonno, il Principe di Salina entrambi muoiono lontani da casa e così, come per il suo bisnonno, pure Giuseppe Tommasi avverte la fine del suo passato illustre, della sua giovinezza felice e spensierata quando durante la seconda guerra mondiale, palazzo Lampedusa viene distrutto da un bombardamento. Quella distruzione segna moltissimo l’autore rendendosi conto che del suo passato e della sua onorata famiglia non resta altro che un mucchio di macerie.   

I RETROSCENA DEL GATTOPARDO

DI FABRIZIO SERGI

Alla fine del 1960 il progetto "Il Gattopardo" passa a Luchino Visconti, reduce dal primo autentico successo di pubblico della sua carriera di regista, Rocco e fratelli (prodotto e distribuito anche dalla Titanus). Oltre alla lettura del romanzo, Visconti è rimasto affascinato anche dal documentario televisivo La Sicilia del Gattopardo (1960) di Ugo Gregoretti, girato proprio nei luoghi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Don Fabrizio Salina. Visconti ha poi lavorato all'adattamento con i suoi fidati collaboratori Suso Cecchi d'Amico ed Enrico Medioli, affiancati da due sceneggiatori della Titanus, Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa (che aveva già contribuito a Rocco ei suoi fratelli). Con la produzione, ci sono stati problemi con la preparazione del preventivo, che ha raggiunto livelli estremamente elevati. La formula della coproduzione con la Francia (già approvata per Rocco) questa volta non basta e Lombardo cerca interlocutori americani. Quindi è stato necessario affidare la parte del principe a una grande star americana, e lo stesso produttore ha pensato a Burt Lancaster. Nell'autunno del 1961 il regista organizza sopralluoghi in Sicilia con lo scenografo Mario Garbuglia e il general designer Pietro Notarianni, accompagnato dal figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa, Gioacchino Lanza Tomasi. Le riprese iniziarono il 14 maggio 1962. Nelle settimane immediatamente precedenti l'inizio delle riprese, Garbuglia si è trovato a presidiare contemporaneamente cinque diversi cantieri per le scene dell'arrivo di Garibaldi a Palermo, mentre lavorava febbrilmente anche alla casa del principe a Boscogrande, sua residenza estiva a Donnafugata, Ciminna, e alla terrazza dell'osservatorio Palmolinna. Centinaia di tapparelle sostitutive, asfalto ricoperto di terra compattata, fili della luce e del telefono rimossi dai quartieri palermitani e antenne televisive sono state solo le difficoltà più ridicole. Gli edifici di Palermo, compresa la Porta, attraverso la quale irrompono le Camicie Rosse, furono costruiti in quindici giorni, i lavori di Villa Boscogrande furono terminati in ventiquattro giorni: per restaurare questa villa si dovette allestire una vera e propria officina di falegnami e portare da Roma un esercito di stuccatori e decoratori. Sono stati infatti restaurati tutti i mobili, pavimenti e soffitti; la facciata è completamente ristrutturata, le pareti sono tinteggiate, le pareti sono affrescate e tappezzate. Una ventina di pittori scelti tra Palermo e Roma dipinsero il soffitto del salone centrale affrescato descritto nel libro e terminarono l'opera (duecento metri quadrati) a tempo di record, quindici giorni." "Ma non è niente in confronto a quello che abbiamo fatto a Ciminna", continua Garbuglia. "La città è stata scelta perché la sua piazza, con alle spalle la chiesa, corrispondeva "quasi" in tutto all'immaginaria piazza Donnafugata, che "quasi" significa mancare un piccolo dettaglio: mancava infatti il palazzo del Principe di Salina. E abbiamo costruito questo edificio". Secondo il progetto del

Garbuglia, la facciata del palazzo principesco fu eretta accanto alla chiesa, a circa un metro di distanza dagli edifici moderni. Durò quarantacinque giorni lavorativi tra difficoltà di ogni genere, soprattutto la mancanza di materiali. Chilometri di tubo Innocente dovevano essere trasportati a Ciminna ed enormi carichi di intonaco dalla lontana Messina; perché la fusione dei modelli richiedeva il gesso e il gesso locale non voleva solidificarsi. Garbuglia andò in Sicilia con quattro maestri e sei operai qualificati; altri operai venivano assunti tra i contadini e bisognava insegnare loro i rudimenti del mestiere; non è escluso che si siano rivelati loro utili in seguito. Anche piazza Ciminna dovette essere ricostruita; bisognava cioè liberarlo dall'asfalto moderno e restituirlo ad una pavimentazione più primitiva. Il lavoro dei decoratori è iniziato diversi mesi prima dell'inizio del film e consisteva inizialmente in un'accurata ricerca di mobili, quadri e arazzi d'epoca. Il risultato di questa vasta ricerca è stato presentato in numerosi album fotografici, che sono giunti gradualmente al regista per fare la prima scelta. Dopo aver scelto gli ambienti di ripresa, è stata studiata la disposizione degli arredi e sono stati predisposti dei tavoli, sui quali sono stati applicati i campioni tessili scelti per tendaggi e tappezzerie, tappeti, ecc. Le lastre campione sono state comunque consegnate e discusse con il manager prima di entrare in produzione. L'intera isola fu perquisita per impossessarsi di quante più vecchie carrozze possibili, alcune delle quali furono trovate ancora funzionanti nelle pompe funebri, altre nelle scuderie di vecchie ville o villaggi, dove venivano utilizzate per gli scopi più impensati. Ovviamente tutti questi vagoni dovevano essere restaurati, riempiti e riverniciati. Sul basamento erano dipinti gli stemmi di famiglia. Nonostante tutta la decorazione, l'aiuto della famiglia Lanza di Mazzarino fu inestimabile, e uno dei suoi rappresentanti, Gioacchino, è il figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, duca di Palma, ed erede del titolo di autorità. Gran parte dei mobili, letti, tappeti, lampadari, tappeti che decorano le stanze dove sono state girate le scene del film, provengono dalle magnifiche collezioni di Palazzo Mazzarino; e un sacco di stoviglie, posate e bicchieri che brillano nella scena della danza. Gioacchino Lanza di Mazzarino fu un collaboratore competente in fatto di arredi: esperto in materia, fu la guida ideale per la ricostruzione della Sicilia perduta. Come dicevamo, l'intero film è stato girato in Sicilia, ad eccezione delle scene di Palazzo Donnafugata, che sono state ricostruite nella sala di Palazzo Chigi ad Ariccia. Sono state girate solo tre delle quattro serie prodotte: "Piazza San Giovanni Decollato (quattro giorni di riprese: la fucilazione dei picciotti e la reazione delle liberate); Piazza della Vittoria allo Spasimo (Quattro giorni di Tiro: Attacco della Cavalleria Borbonica); in Piazza Sant'Euno (due giorni di riprese), che sostituiva l'antica porta della città attraverso la quale sfondavano i garibaldini. ni del Drago. A fine giugno le riprese si spostano a Ciminna, che, secondo la Garbuglia, "diventa" il

nome fittizio del romanzo, Donnafugata, dietro cui si nasconde Palma di Montechiaro. La famosa sequenza di danza è stata girata di notte nel Palazzo Gangi di Palermo, che era in buone condizioni e ha richiesto solo pochi set. "Visconti e [direttore della fotografia] Rotunno hanno cercato di ricreare la luce delle candele. Sono state utilizzate poca luce artificiale e migliaia di candele per simulare ciò che doveva essere del tutto naturale" (Caterina d'Amico, La Bottega del Gattopardo, op. cit.). Per quanto riguarda i costumi, Piero Tosi è stato uno dei più importanti collaboratori di Visconti, che iniziò a documentare il lavoro nell'inverno del 1961. Tossi dice: Per la divisa borbonica e la toppa dell'Armata Mille, mi documentai fermamente nel Museo del Risorgimento di Palermo, che aveva anche i pantaloni Garibaldi blu: esattamente lo stesso taglio dei jeans di oggi. Le camicie rosse nella vetrina di quel museo: che poesia nei taschini, nelle asole, nelle coste, nei colletti... Ho capito che hanno la poesia di casa, la perfezione amorosa di ago e filo familiari. Migliaia di volontari. Tutti sono arrivati in divisa cucita e tagliata dalle loro madri, nonne, fidanzate. Tra i garibaldini non c'era una camicia rossa come l'altra, nessun pantalone come l'altro. E non puoi avere camicie e pantaloni già pronti in un film. Quando leggiamo un romanzo, un copione, la nostra immaginazione personale trova sempre qualcos'altro tra le righe, negli "spazi" del racconto. Io, tra i paesani nei loro modesti abiti di velluto scuro, immaginavo una ragazza vestita di bianco. Non sapendo chi l'avrebbe indossato, ho curato l'abito, prelevato campioni di stoffa, tormentato il sarto e Tirell, perché volevo un certo tipo di bianco, bianco per un abito borghese non troppo elegante. L'ho realizzato in étamine bianco sporco, dove ho utilizzato il sutacha geometrico, una decorazione tipica del Secondo Impero. La dichiarazione era un abito di Claudia Cardinale. Nel romanzo Tomasi la veste di rosa, con guanti lunghi. La storia del costume ha tutto sbagliato. Anche la Claudia rosa sembrava una bambola, anche se non era affatto grassa. La fotografia lo ha ampliato, reso più arrotondato.

Social
Contattaci

facebook

info@imarinotidisicilia.eu

IMARINOTIDISICILIA©